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CONDANNATA IN PRIMO E SECONDO GRADO PER IL REATO DI VIOLENZA PRIVATA AGGRAVATA DAL METODO CAMORRISTICO: ASSOLTA PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE DALLA CORTE DI APPELLO NEL GIUDIZIO DI RINVIO A SEGUITO DI SENTENZA DI ANNULLAMENTO EMESSA DALLA CORTE DI CASSAZIONE

Assolta dalla imputazione di violenza privata nel giudizio di rinvio a seguito di sentenza della Corte di Cassazione.

La nostra assistita veniva rinviata a giudizio per il reato di violenza privata aggravata dall’utilizzo del metodo camorristico per aver rivolto espressioni minacciose ad un soggetto che aveva compiuto una estorsione ai danni di una amica dell’imputata, affinchè costui si adoperasse affinché alla vittima fosse prontamente restituita la somma estorta.

Il quadro accusatorio era rappresentato dagli esiti di attività di intercettazione telefonica ed ambientale.

Nel giudizio di primo grado, definito con le forme del rito abbreviato, l’imputata veniva condannata dal GIP per il reato di cui all’art. 610 c.p. aggravato ex art. 7 l. 356/92 e condannata ad una severa pena.

La Corte di Appello confermava la condanna irrogata in primo grado e pertanto decidevamo di proporre Ricorso per Cassazione nel quale evidenziavamo che le sentenze di primo e secondo grado erano affette da duplice vizio conseguente a carenza motivazionale e ad erronea applicazione della disposizione di legge di cui all’art. 610 c.p. in quanto il delitto di violenza privata presuppone che la vittima venga costretta a fare, tollerare o omettere qualcosa mentre nella vicenda in esame non risultava che vi fosse stato tale tipo di costrizione, essendo state proferite dall’imputata solamente espressioni minacciose che tuttavia non era dato sapere se avessero sortito qualche effetto coartante.

La Suprema Corte di Cassazione in accoglimento del nostro ricorso annullava la sentenza di appello e rimetteva gli atti ad un’altra sezione della Corte di Appello affinchè procedesse ad un nuovo giudizio.

La Corte di Appello, in applicazione del principio di diritto dettato dalla Suprema Corte, assolveva l’imputata perché il fatto non sussiste rilevando appunto che non risultava provato che la condotta posta in essere dall’imputata avesse sortito un effetto costrittivo sulla vittima.

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